Il brutale bombardamento della città di Gaza, l’elevato numero di morti – già ben oltre 11mila, secondo le cifre ufficiali, oltre a 3mila dispersi – e la distruzione su larga scala delle infrastrutture, il bombardamento di ospedali, scuole, campi profughi, gli attacchi mirati alle ambulanze e al personale medico, tutto questo mette in piena luce la barbarie dell’aggressione dell’esercito israeliano nei confronti del popolo palestinese.
[Source]
Mentre l’incubo nella Striscia di Gaza prosegue, i palestinesi che vivono nella Cisgiordania stanno subendo attacchi sempre più intensi da parte dei soldati israeliani e dei coloni. Questo avveniva già prima del 7 ottobre, ma da allora sono enormemente aumentati, con l’uccisione di circa 200 palestinesi. In alcune aree, intere comunità sono state costrette a abbandonare le proprie case sotto minaccia di morte.
Questo conflitto non nasce oggi, ma ha radici profonde, che risalgono a quando ebbe inizio il progetto sionista di costruire uno Stato ebraico nel territorio storico della Palestina. L’unico modo con cui questo Stato poteva essere costruito nel 1948 era mediante l’espulsione di un intero popolo dalla propria terra. Così, venne commesso un crimine contro il popolo palestinese, che è al centro di un conflitto inter-etnico che resta ancora oggi irrisolto.
Questi eventi non arrivano, tuttavia, come un fulmine a ciel sereno. Dobbiamo guardare, in particolare, all’espropriazione ininterrotta che continua da molti decenni dei palestinesi che vivono nella Cisgiordania, sia prima sia dopo gli Accordi di Oslo del 1993, che hanno portato alla nascita dell’Autorità Palestinese.
La moltiplicazione degli insediamenti israeliani
Nel giugno di quest’anno, mesi prima dell’attuale escalation del conflitto, il governo Netanyahu – il più a destra nella storia di Israele – aveva notevolmente intensificato il suo programma di espansione degli insediamenti nella Cisgiordania. Ovvero, proprio nel territorio dell’Autorità Palestinese, nel quale i palestinesi avevano sperato, ormai tanti anni fa, di potere ottenere un governo autonomo come passo iniziale in direzione di uno Stato vero e proprio. Questa speranza è stata più volte infranta e oggi vediamo solo l’ultimo passo nella definitiva cancellazione di questa ipotesi.
Solo nei primi sei mesi di quest’anno, il governo ha approvato altre 7mila nuove unità abitative nella Cisgiordania. Il cambiamento della legge a giugno, tuttavia, ha permesso un’ulteriore accelerazione di questo programma. Le ultime cifre indicano che il numero dei coloni israeliani sul territorio palestinese occupato ha già raggiunto quasi i 750mila, distribuiti in 250 insediamenti. Circa 250mila coloni vivono a Gerusalemme Est e il resto sono distribuiti in tutta la Cisgiordania.
Ogni insediamento viene difeso dalla forza soverchiante dell’esercito israeliano, le IDF [Israel Defense Forces, Forze di Difesa Israeliane, ndt]. I coloni godono di rifornimenti di acqua in abbondanza e di servizi di prima categoria, ai quali accedono attraverso una rete di strade private, fortificate da recinzioni di filo spinato. Lo scopo di tutto questo è di sottrarre la porzione più ampia possibile di territorio palestinese all’accesso dei palestinesi e di soffocare i mezzi di sostentamento dei palestinesi nei territori occupati, preparando nuove espropriazioni dei territori che circondano gli insediamenti esistenti e di fondarne di nuovi.
Netanyahu ha messo in piedi, per la propria auto-conservazione, una coalizione eterogenea di suprematisti ebraici di estrema destra. Essa include Bezalel Smotrich, il Ministro delle Finanze (che è incaricato dell’occupazione israeliana della Cisgiordania), e Itamar Ben-Gvir, il Ministro della Sicurezza Nazionale, che è stato escluso dal servizio militare a causa delle sue opinioni estremamente razziste. Entrambi sono esponenti riconosciuti del movimento dei coloni. Questi individui hanno iniziato la loro carriera come fanatici razzisti di estrema destra ai margini della politica israeliana, arrivando a ottenere ministeri chiave nel governo di Netanyahu. Il loro programma è quello di provocare una nuova Nakba e di espellere i palestinesi dall’intero territorio della Palestina storica.
Tutti i governi precedenti avevano appoggiato gli insediamenti, che si sono espansi enormemente fin da quando è stata fondata l’Autorità Palestinese. Tuttavia, il governo attuale sta spingendo lo scontro a un livello senza precedenti. Questo spiega perché a giugno, a Smotrich erano stati assegnati ampi poteri per aggirare le vecchie procedure che regolavano la concessione di permessi per edificare. In sostanza, si è messo il pieno controllo della colonizzazione della Cisgiordania nelle mani di un fanatico. Non dimentichiamoci che questo è lo stesso ministro che, a marzo di quest’anno, dopo che dei coloni avevano assaltato il villaggio palestinese di Huwara nella Cisgiordania, uccidendo una persona e ferendone più di 100, aveva detto pubblicamente che l’intero villaggio di “Huwara deve essere spazzato via”. E che lo “Stato di Israele dovrebbe occuparsene”.
A giugno, quando a Smotrich vennero assegnati i nuovi poteri, Hamas avvertì che ciò avrebbe solo portato a un’ulteriore escalation nelle tensioni. Con il senno di poi, i segni premonitori di quello che sarebbe successo erano già sotto gli occhi di tutti. Come sottolineava un articolo del Washington Post del 28 febbraio: “Con un nuovo governo di estrema destra al potere, i coloni pensano che sia finalmente arrivato il momento di procedere all’annessione effettiva della terra che considerano propria sulla base di un diritto di nascita sancito dalla Bibbia”.
In seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele, mentre tutta l’attenzione era concentrata sul massacro in corso, scatenato da Israele contro la popolazione civile a Gaza, i coloni nella Cisgiordania hanno intensificato i propri attacchi di villaggio in villaggio, cacciando i palestinesi dalle loro terre e dalle loro case. Essi godono del totale appoggio dell’esercito e del governo israeliani. Dopo l’attacco, Ben-Gvir ha annunciato immediatamente la distribuzione di migliaia di fucili di assalto ai coloni. Anche prima che questa misura fosse annunciata, migliaia di coloni erano già armati.
Gli attacchi da parte dei coloni contro i palestinesi nella Cisgiordania sono più che raddoppiati da una media di 3 al giorno a 7, con un totale di oltre 200 di tali attacchi avvenuti dopo il 7 ottobre. Solo quest’anno (fino al 9 novembre), 378 palestinesi sono stati uccisi nella Cisgiordania, principalmente dall’esercito israeliano, e alcuni dai coloni, le cui azioni si svolgono nella completa impunità. Quasi la metà di essi, 170, sono stati uccisi dopo il 7 ottobre.
Un articolo del 3 novembre su Al Jazeera (“‘In pericolo in casa propria’: coloni israeliani spargono il terrore nelle colline a sud di Hebron”) fornisce un’idea di quello che sta succedendo:
“I coloni di solito arrivano di notte, distruggendo i serbatoi dell’acqua, le tubature e i sistemi elettrici; rompono le finestre e distruggono le automobili. Quello che più ha allarmato gli abitanti di Khirbet Zanuta è stato quando i coloni armati hanno cominciato a entrare nelle case per malmenare i pastori palestinesi. Il 27 ottobre, i coloni hanno detto agli abitanti che se non se ne andavano entro 24 ore, sarebbero stati uccisi”.
Lo stesso articolo continua, spiegando:
“Secondo gli ultimi dati forniti dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA), almeno 864 palestinesi, inclusi 333 bambini, sono stati cacciati con la forza a seguito di attacchi da parte dei coloni israeliani in questo periodo, in corrispondenza con l’evacuazione totale di 11 villaggi e il trasferimento forzato almeno parziale di altri 11. Quasi la metà di almeno 186 incidenti violenti con il coinvolgimento dei coloni che hanno provocato morti o danni alle proprietà si sono svolti in presenza, o con l’appoggio, delle forze militari israeliane. I coloni hanno utilizzato armi in almeno un terzo di queste azioni”.
Un altro articolo di Al Jazeera spiega:
“I coloni commettono crimini nella Cisgiordania occupata da ben prima del 7 ottobre. Tuttavia, è come se, dopo il 7 ottobre, avessero ottenuto il via libera per compierne in maggiore quantità”, ha detto a Al Jazeera Ghassan Daghlas, un funzionario dell’Autorità Palestinese che monitora l’attività dei coloni.
“Il 28 ottobre, un contadino palestinese che stava raccogliendo le olive è stato colpito a morte da un proiettile sparato dai coloni nella città di Nablus, nella Cisgiordania occupata. ‘Siamo adesso nel mezzo della stagione della raccolta delle olive – e la gente non è riuscita a raggiungere il 60% degli olivi nell’area di Nablus a causa degli attacchi dei coloni’, ha detto Daghlas.
“Il villaggio beduino di Wadi al-Siq nella West-Bank occupata si è stato svuotato dei suoi 200 abitanti il 12 ottobre, in seguito alle minacce dei coloni”.
A Gerusalemme Est, vediamo un’espropriazione sistematica dei palestinesi, che trovano improvvisamente le loro proprietà recintate dai coloni ebrei. Si trovato costretti a dimostrare di esserne i proprietari di fronte a “ingiunzioni di sfratto” emanate “legalmente” da tribunali israeliani.
Sedicenti “organizzazioni caritatevoli” negli Stati Uniti stanno fornendo finanziamenti che vengono utilizzati per trasferire la terra in mano agli israeliani. Ci sono video che mostrano ebrei americani intenti a sfrattare senza vergogna i palestinesi dalle loro case in presenza di membri della Knesset (parlamento israeliano) e anche di ministri del governo come Ben-Gvir.
Quello che viene descritto è la distruzione di intere comunità e la loro espulsione – pulizia etnica – a volte sotto minaccia di morte.
Nessuno spazio per due Stati nel progetto sionista
Adesso, possiamo chiederci: tutto ciò è una conseguenza dell’attacco del 7 ottobre? Chiaramente no. Come abbiamo visto, l’attuale governo Netanyahu è responsabile di un’accelerazione e un’espansione del progetto di colonizzazione. Ma, di nuovo, neanche ciò ha avuto inizio con questo governo. La verità è che il piano di annessione della Cisgiordania risale a molti decenni fa, a dire il vero alla fondazione stessa di Israele, quando i sionisti avevano già le idee molto chiare.
Per questi ultimi, il progetto sionista originale non contemplava una spartizione della Palestina, con un territorio ebraico e uno palestinese. Il loro obiettivo era quello di creare uno Stato ebraico in tutta la Palestina solo per gli ebrei e di cacciare i palestinesi che vi abitavano. Questo venne dichiarato chiaramente dalle figure dei fondatori di Israele, in particolare da David Ben-Gurion, che disse pubblicamente che riteneva l’accettazione della proposta di spartizione del 1947 da parte delle Nazioni Unite semplicemente come una mossa tattica in direzione di una finale conquista di tutta la Palestina.
Già nel 1937, Ben-Gurion, parlando allo Zionist Executive (l’Organizzazione creata per il trasferimento degli ebrei in Palestina, ndt), disse: “Il dibattito non è stato a favore o contro la divisibilità di Eretz Israel [la Terra di Israele, ovvero la Terra Promessa da dio agli ebrei nella Bibbia, ndt]. Nessun sionista può rinunciare alla benché minima parte di Eretz Israel. Il dibattito era su quale delle due strade avrebbe portato più velocemente all’obiettivo comune. Dopo la formazione di un grosso esercito a seguito della fondazione dello Stato, aboliremo la spartizione e ci espanderemo in tutta la Palestina” (enfasi nostra. Citato in Simha Flapan, The Birth of Israel, Pantheon, New York, 1987, pag. 22).
Non si può accusare Ben-Gurion di essere stato ambiguo. Al tempo, la classe dominante sionista era costretta a causa dei rapporti di forze (la pressione delle principali potenze, il desiderio di evitare una guerra totale con i paesi arabi vicini, gli equilibri etnici ancora sfavorevoli, visto che i palestinesi erano la maggioranza) a limitarsi a stabilire lo Stato di Israele solo su una parte della Palestina. Ma la loro intenzione era chiara: costruire un potente apparato statale, a cominciare dall’esercito, e poi prepararsi a prendere il resto.
La classe dominante sionista di Israele non ha mai avuto l’intenzione di concedere una “soluzione a due Stati”, che veniva promossa da alcuni mentre Israele veniva fondato. Infatti, nel 1947 firmarono un trattato segreto con il re della Giordania Abdullah I, nel quale egli prometteva di non attaccare il territorio israeliano in cambio del tacito permesso di annettere la Cisgiordania alla Giordania. Questo spiega perché Abdullah I venne assassinato da un nazionalista palestinese nel 1951, pagando il prezzo per il suo tradimento della causa palestinese durante la Nakba.
E così è come le cose si svolsero quando scoppiò la guerra nel 1948. Dal punto di vista della classe dominante sionista, ciò era meglio che vedere la creazione di uno Stato palestinese indipendente nella Cisgiordania e a Gaza. In effetti, lasciarono la Cisgiordania sotto l’amministrazione giordana finché non si trovarono nella situazione di fare la propria mossa e occuparla militarmente.
Nella guerra del 1948, gli israeliani occuparono un territorio più vasto di quello previsto dal piano di spartizione della Nazioni Unite. Condussero attacchi contro i palestinesi, uccidendone a migliaia, terrorizzandoli e costringendoli alla fuga a centinaia di migliaia (750mila palestinesi vennero permanentemente cacciati nel 1948, secondo l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite), creando il problema dei profughi che rimane senza soluzione fino a oggi. Le principali potenze riconobbero poi i nuovi confini che Israele aveva conquistato armi alla mano.
Le Nazioni Unite approvarono allora nel 1948 la risoluzione 194, una delle tante che erano destinate a rimanere completamente ignorate da Israele. Vi si affermava che: “i rifugiati che desiderano tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbe essere consentito di farlo al più presto possibile…”.
L’ammissione di Israele come membro della Nazioni Unite dipendeva in parte dalla sua accettazione di questa risoluzione. Israele formalmente la accettò, ma una volta che venne ammessa alle Nazioni Unite, prontamente si tirò indietro. Come dichiarò Ben-Gurion: “Il loro ritorno deve essere impedito… a ogni costo”.
Poco dopo, nel 1950, Israele approvò una “Legge del Ritorno” molto differente, che permetteva a tutti gli ebrei nel mondo di stabilirsi in Israele come cittadini. Così ebbe inizio la politica di immigrazione a Israele di numerosi ebrei da altri paesi. Questo serviva ai sionisti per modificare in maniera decisiva l’equilibrio etnico e per garantirsi i grossi numeri di cui aveva bisogno per colonizzare la terra che era stata conquistata in guerra. Entro la metà del 1951, circa 650mila ebrei erano emigrati in Israele dall’Austria e dalla Germania (50mila), dall’Europa Orientale (200mila), dai paesi musulmani circostanti (250mila) e da altre parti del mondo.
Servì del tempo per assimilare questa ondata di migranti. Circa 200mila di essi presero possesso delle case lasciate vuote dai palestinesi in fuga, ma ce n’erano anche circa 100mila che vivevano nelle tende. Gli ebrei orientali (mizrahi) dovettero affrontare la disoccupazione e la povertà, vivendo in miseria, al punto che chi poté lasciare Israele lo fece. Ma gradualmente, vennero costruite le infrastrutture e Israele si strutturò come uno S Stato solido, con un potente esercito.
Gli anni immediatamente successivi alla creazione di Israele videro scontri continui, bombardamenti, invasioni dei territori confinanti, e l’uccisione di molti arabi. Secondo le Nazioni Unite ci furono più di 17 incursioni militari sul territorio egiziano tra il 1949 e il 1956, e numerose altre azioni simili in altri paesi vicini. Nel 1956, durante la crisi del canale di Suez, Israele occupò la penisola del Sinai, ma venne in seguito costretta a ritirarsi.
Lo storico israeliano Avi Shlaim sottolinea quali fossero i pensieri dei sionisti più intransigenti nel suo libro, Collusion across the Jordan. Moshe Dayan era uno di questi intransigenti, un generale dell’esercito del tutto in linea con il pensiero di Ben-Gurion. Egli “sviluppò la teoria secondo cui la Guerra di Indipendenza [del 1948, ndr] non era ancora finita e che erano necessarie molte altre operazioni su larga scala per condurla a una conclusione più favorevole. Varie proposte vennero ventilate da Dayan per la conquista della Striscia di Gaza, del Monte Hebron, e della Cisgiordania…” (Avi Shlaim, Collusion across the Jordan, Columbia University Press, New York, 1988).
Perseguendo questa politica, il governo incrementò enormemente la spesa militare. Tra il 1952 e il 1966 la spesa militare crebbe di 16 volte, raggiungendo la cifra stratosferica di più di un terzo del Pil. Stavano chiaramente preparando un esercito molto potente, in vista di guerre future.
Dopo la Guerra dei Sei Giorni
Da qui, possiamo adesso fare un salto in avanti nel tempo al 1967 e alla famigerata Guerra dei Sei Giorni, che si svolse tra il 5 e il 10 di giugno di quell’anno. Israele uscì dai sei giorni dei combattimenti con il controllo delle Alture del Golan (che facevano parte della Siria), della Penisola del Sinai (parte dell’Egitto), della Striscia di Gaza fino a quel momento occupata dall’Egitto, della Cisgiordania e di Gerusalemme Est.
Nel corso della guerra, altri circa 300mila palestinesi vennero cacciati dalla Cisgiordania. L’intera striscia occidentale della Valle del Giordano venne quasi del tutto svuotata. In seguito, il Sinai venne restituito all’Egitto, ma Israele rimase come una forza di occupazione negli altri territori che aveva invaso. I piani a lungo termine di Ben-Gurion erano stati finalmente messi in pratica.
Fu dopo questi eventi che una graduale colonizzazione di questi territori ebbe inizio, con la creazione di insediamenti ebraici. La classe dominante sionista si chiese se non dovessero semplicemente annettere questi territori a Israele. Ma c’era un problema in questo: farlo avrebbe comportato triplicare in un colpo solo il numero di arabi palestinesi che vivevano all’interno dei confini israeliani in qualità di cittadini. C’era anche un problema annesso: il tasso delle nascite tra i palestinesi era più elevato di quello tra gli ebrei in Israele e, di conseguenza, rischiavano di creare uno scenario nel quale a un certo punto i palestinesi sarebbero potuti emergere come maggioranza della popolazione.
Questo spiega la politica che hanno adottato da quel momento. In assenza di un’annessione formale dei territori, i palestinesi restano “stranieri” nella loro stessa terra, sottoposti a un’amministrazione “civile-militare” e a un regime di legge marziale, mentre i coloni ebrei, sebbene vivano fuori dai confini di Israele riconosciuti a livello internazionale, vengono trattati come cittadini israeliani che possono votare alle elezioni in Israele e hanno tutti i diritti di cittadinanza. Il piano dei falchi fra i sionisti era chiaro: impossessarsi mano a mano di un territorio sempre più vasto strappandolo ai palestinesi, cacciarli e alla fine trovare un modo per mandarli via tutti.
Come si poteva ottenere tutto questo? Lanciarsi semplicemente in operazioni di guerra e espellere fisicamente tutti i palestinesi in un colpo solo avrebbe costituito una provocazione enorme per tutti i popoli arabi del Medio Oriente e avrebbe provocato indignazione e rabbia ben oltre la stessa regione. Meglio adottare un approccio più graduale – che, a tutti gli effetti, consiste in una seconda Nakba a bassa intensità (Nakba significa “catastrofe” in arabo, viene utilizzata per riferirsi alla prima espulsione di massa del 1948).
Nel settembre 1967, venne costruito a Hebron il primo insediamento. Nei primi anni dell’occupazione israeliana, tuttavia, c’era relativamente poca resistenza da parte della popolazione. Lo stato d’animo cominciò a cambiare significativamente tra i palestinesi alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80, cioè da quando Israele iniziò a accelerare su larga scala il programma di colonizzazione. Questo veniva accompagnato dalla requisizione delle terre e dall’espropriazione degli edifici dei proprietari palestinesi, molti dei quali erano stati già cacciati via o durante i combattimenti del 1948 o più tardi durante la guerra del 1967.
Un punto di svolta in questa situazione giunse con le elezioni del maggio 1977, nelle quali il partito Likud, guidato da Menachem Begin, vinse provocando un terremoto elettorale e diventando il primo partito nel Knesset, sebbene non godesse di una maggioranza assoluta. Fu durante l’amministrazione Begin (1977-1983), che il numero degli insediamenti ebraici nei territori occupati, fino a allora limitati a qualche migliaio, cominciò a crescere in maniera significativa.
Al fine di giustificare legalmente quello che non era nient’altro che un furto spudorato del territorio palestinese, il governo di Israele si appellò al diritto di amministrare i terreni che in Cisgiordania era incolti o non avevano un proprietario legale presente. Secondo i criteri utilizzati, questo significava una percentuale oscillante tra il 30% e il 70% della terra in Cisgiordania che poteva passare nelle mani di Israele.
Questo rese più che evidente che le autorità israeliane stavano lavorando a un’annessione di fatto dei territori palestinesi. Menachem Begin fece un viaggio in Cisgiordania nel febbraio del 1981, visitando i primi insediamenti. Allora gli insediamenti in Cisgiordania ammontavano a 72, con circa 20mila coloni, cresciuti fino a questa cifra dai 3,200 che erano quando era stato eletto per la prima volta quattro anni prima. Sul sito del primo e simbolico insediamento di Elon Moreh, egli promise: “ci saranno molte altre Elon Moreh”.
Il generale Ariel Sharon, allora ministro dell’Agricoltura, era il principale architetto del programma di colonizzazione del governo Begin. Ed era molto chiaro riguardo a quanto il governo stesse facendo. Queste sono le sue parole, riportate dal New York Times il 19 febbraio del 1981:
“Israele non permetterà la creazione di uno Stato palestinese in Samaria, Giudea e nel distretto di Gaza. Io credo che siamo riusciti a evitare la possibilità di uno stato palestinese; un secondo Stato palestinese, dopo quello della Giordania” (notare come non si sforzasse neanche di usare il nome di Cisgiordania, ma utilizzasse i nomi biblici per le regioni che ricoprono quel territorio oggi).
Lo stesso articolo spiegava che Israele pianificava la creazione di tre differenti categorie di proprietà delle terre in Cisgiordania: “… quelle di proprietà privata, che sarebbero sotto l’autorità locale palestinese; quelle di proprietà pubblica, senza un uso designato, che sarebbero amministrate congiuntamente da Israele e dai palestinesi e quelle di proprietà statale per fini militari o di colonizzazione, la cui amministrazione sarebbe esclusivamente in mano israeliana”. È molto interessante che tutto questo era destinato a diventare la base per la suddivisione della futura Autorità Palestinese in tre aree differenti.
Le autorità israeliane avevano bisogno di un qualche tipo di copertura legale per ciò che equivaleva al furto della proprietà palestinese. Potevano essere dei fanatici reazionari sostenitori del capitalismo, che difendevano i principi della proprietà privata, ma quando si trattava della proprietà dei palestinesi, dimenticavano opportunamente questi principi.
Ciò non significa che non venissero approvate leggi per dare un’apparenza di giustificazione legale alla rapina delle terre palestinesi. Nel 1950, Israele aveva già adottato la “Legge del Proprietario Assente”, che stabiliva la perdita dei diritti di proprietà per i vecchi proprietari che non erano più presenti. Il fatto che erano “assenti” e che non sarebbero potuti tornare anche se lo avessero voluto perché erano stati brutalmente espulsi e veniva loro impedito di tornare, veniva, di nuovo, convenientemente ignorato.
Questa legge venne applicata, ad esempio, nella Valle del Giordano. Considerata di importanza strategica, i comandanti militari israeliani potevano dichiarare tratti di terra come appartenenti alle “aree chiuse”. Questo impediva anche a quei palestinesi che non erano “assenti”, ma sfollati all’interno di Israele, di ritornare nelle proprie terre o di coltivarle. La terra poi sarebbe stata trattenuta abbastanza a lungo da poterla dichiarare “incolta”, permettendo di classificarla come “terra statale”.
Una volta che questo trucchetto era stato portato a termine e che lo Stato di Israele si era impadronito della terra, essa poteva essere data in possesso ai coloni ebrei. Israele definì infatti circa il 26% della Cisgiordania “terra statale”, sulla quale veniva permessa la costruzione di insediamenti.
Uno studio approfondito di come simili scappatoie e sotterfugi legali siano stati utilizzati per impadronirsi di un quantità sempre maggiore di terra che in precedenza apparteneva ai palestinesi è disponibile in uno studio prodotto per un seminario delle Nazioni Unite del 1981 su questo argomento, Israeli Settlements in Occupied Arab Lands: Conquest to Colony, di Janet Abu-Lughod. Lo studio cita i piani stilati da esponenti sionisti vicini al partito al governo.
Questi piani sono degni di nota perché corrispondono fedelmente allo sviluppo successivo degli eventi. Essi discutono apertamente di un “insediamento sull’intero territorio di Israele”, incluse “Samaria e Giudea”. Discutono della “confisca dei terreni coltivati e [della] recinzione dei pascoli comunitari, e attraverso la prelazione delle scarseggianti risorse idriche, senza le quali la terra non ha alcun valore”.
E Abu-Lughod cita il libro di William Wilson Harris Taking Root: Israeli Settlement in the West Bank, the Golan and Gaza-Sinai, 1967-1980, che aveva previsto:
“Nel lungo termine, la comunità araba verrebbe tagliata in blocchi isolati, separati gli un dagli altri dalle linee di Sharon [grandi autostrade che connettono gli insediamenti, ndr], dalla Giudea da un accerchiamento ebraico intorno a Gerusalemme e dall’esterno dalla preesistente Valle del Giordano. In una Cisgiordania segmentata in tale maniera sarebbe difficile immaginare un qualsiasi effettivo autogoverno, oltre il livello municipale, come una possibilità concreta”.
Di nuovo, questo è precisamente quanto è stato fatto alla Cisgiordania negli anni successivi e che è proseguito sotto l’Autorità Palestinese dal 1993.
Strangolamento economico
Rimaneva il problema di cosa fare con i palestinesi una volta che erano stati espropriati e cosa fare con coloro che ancora possedevano delle terre. La risposta venne trovata in quello che Abu-Lughod descrisse come “strangolamento economico”.
Un pilastro centrale di questa politica includeva privare i palestinesi dell’acqua per l’irrigazione. L’accesso alle risorse idriche richiedeva una licenza, diritti di locazione, etc. che dovevano essere rinnovati e che potevano essere facilmente negati dalle autorità israeliane. Dall’altra parte, ogniqualvolta un insediamento ebraico faceva richiesta per gli stessi diritti, questi venivano immediatamente garantiti.
L’obiettivo di tutto questo era, ovviamente, di costringere un numero crescente di palestinesi a emigrare al fine di sopravvivere, mentre si sfruttava la restante parte come fonte di mano d’opera a basso costo. Infatti, nel periodo dopo il 1967, vediamo molti giovani palestinesi cercare una soluzione individuale attraverso l’emigrazione, che divenne un fenomeno diffuso negli anni ’70 e ’80. Un’inchiesta svolta nel 1999 dall’Istituto di Studi Femminili dell’Università di Birzeit rivelò che il 49% degli intervistati in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza aveva almeno un familiare che lavorava all’estero.
Niente di tutto ciò, comunque, era sufficiente per eliminare la massa della popolazione palestinese, che continuò a crescere. Harris (citato sopra), concluse già nel 1980 che le autorità israeliane speravano “… che una tendenza sfavorevole nell’equilibrio demografico interno sarebbe stata compensata da un’emigrazione accelerata dalla Cisgiordania, magari accentuata da un’altra fase di ostilità” [enfasi nostra].
Aggiunge poi queste fatidiche parole:
“In una simile fase di ostilità, resa più probabile che improbabile dai recenti cessate il fuoco, i palestinesi in Cisgiordania con ogni probabilità accuserebbero i danni maggiori poiché, sotto la copertura di tali ostilità, verrà indubbiamente fatto un tentativo di cacciarli definitivamente dalle loro case. In un tale scenario, l’autentico significato dei 127 insediamenti ebraici già sul posto o ancora in costruzione nelle aree occupate diventerà tragicamente chiaro. Essi costituiranno dei forti armati, piazzati dentro e intorno alle aree di concentrazione palestinese, che verranno utilizzati per piegare la resistenza e per spostare in massa altri rifugiati palestinesi oltre la futura linea di cessate il fuoco nel perseguimento espansionistico di Eretz Israel da parte di Israele” [enfasi nostra].
A quel tempo, Benjamin Netanyahu era alle prime armi, ma le parole che proferì in una festa a Gerusalemme nel 1977 (riferite da Max Hasting sul Guardian il 9 maggio 2009) indicano che questa idea di sfruttare le guerre future per espellere altri palestinesi è stata un filo rosso che percorre tutta la storia di Israele fin dalla sua fondazione:
“Ho sentito un giovane israeliano parlare degli arabi con dei termini che mi hanno fatto raggelare il sangue. ‘Nella prossima guerra’, ha detto, ‘dobbiamo cacciare i palestinesi dalla Cisgiordania una volta per tutte’. […] quel giovane israeliano che ascoltai esprimersi entusiasticamente riguardo alla cacciata degli arabi dalla Cisgiordania era Benjamin Netanyahu, l’attuale primo ministro del paese”.
La farsa dell’Autorità Palestinese
Quello che colpisce maggiormente in tutta questa storia è che mostra molto chiaramente quali siano stati i piani della classe dominante sionista fin dall’inizio. Non hanno mai avuto nessuna intenzione di permettere una “soluzione a due Stati”.
Era inevitabile, tuttavia, che questa pressione costante sui palestinesi avrebbe portato a ripetute e crescenti esplosioni di protesta da parte del popolo palestinese, che si cristallizzarono alla fine nella Prima Intifada del 1987. Questa fu una sollevazione di massa di tutto il popolo palestinese, con i giovani in prima fila, che espresse il loro immenso potenziale rivoluzionario.
Il movimento fu talmente forte che alla fine costrinse la classe dominante sionista di Israele al tavolo dei negoziati, che si conclusero con gli Accordi di Oslo del 1993 e con la creazione dell’Autorità Palestinese. Tuttavia, le concessioni fatte da Yasser Arafat e dalla direzione dell’Olp erano talmente tante che il tipo di amministrazione che venne creato nella Cisgiordania a partire da questi accordi era praticamente la fotocopia dei piani di Sharon del 1981 per dividere il territorio.
Questa fu la prima volta che Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) si riconobbero formalmente l’un l’altra. Molti, all’epoca, credettero che questo fosse un passo in direzione di uno Stato palestinese davvero indipendente. I marxisti, tuttavia, non si fecero ingannare. Nel numero dell’estate del 1988 del Militant International Review (n. 37), venne pubblicato un articolo dal titolo “La rivolta in Cisgiordania – le masse intervengono”. Questo avveniva molti anni prima della firma degli Accordi di Oslo e si spiegava perché le “conferenza di pace” tra l’Olp e il governo israeliano non avrebbero portato alla fine dell’occupazione:
“… queste idee ignorano gli ostacoli fondamentali verso una patria palestinese, che hanno origine negli interessi di classe di qualsiasi eventuale partecipante a una simile conferenza, principalmente gli Usa, Israele e la Giordania. La loro principale preoccupazione non sono e non potranno mai essere gli interessi dei lavoratori palestinesi. Essi sono preoccupati unicamente per gli interessi delle proprie classi dominanti. La loro principale preoccupazione è la stabilità politica nella regione e il mantenimento del sistema che garantisce le loro rendite, i loro interessi e i loro profitti”.
E si spiegava che: “… uno Stato palestinese, grosso modo corrispondente all’area della Cisgiordania e di Gaza, sarebbe totalmente impossibile sulla base del capitalismo poiché la sua economia non potrebbe provvedere alle necessità basilari di vita della popolazione…”.
Queste erano parole davvero profetiche, dal momento che l’Autorità Palestinese che venne fuori dagli Accordi di Oslo si è rivelata una farsa totale. Essa includeva il piano di Sharon del 1981, che era chiaramente un piano per frammentare il territorio palestinese, l’esatto opposto di quella che era l’aspirazione delle masse.
La Cisgiordania venne divisa in tre zone, aree A, B e C. L’area A sarebbe stata sotto il governo palestinese e la sicurezza sarebbe stata totalmente nelle mani dell’Autorità Palestinese. Essa ricopriva il 18% del territorio. L’Area B avrebbe avuto il governo palestinese, ma il controllo della sicurezza israeliano e ricopriva il 22% del territorio. Il restante 60% sarebbe stato sotto il totale controllo israeliano. E tutto questo viene attraversato da un sistema di “valichi”: strade che aggirano i villaggi palestinesi. La maggior parte dei terreni agricoli, delle risorse idriche e minerarie sono anch’esse situate nell’Area C.
Tutto ciò venne concordato da entrambe le parti negli Accordi di Oslo. Fu un tradimento del popolo palestinese fin dall’inizio. Gli accordi non stabilivano un territorio con una sua continuità per i palestinesi e lasciavano il grosso del territorio indifeso rispetto a ulteriori insediamenti. L’unica concessione fatta molto più in là da parte israeliana fu il ritiro di 8,500 coloni da Gaza nel 2005 – visto che gli insediamenti lì erano impraticabili. In cambio, semplicemente si concentrarono nella Cisgiordania.
Quello che abbiamo visto dopo il 1993 non è un processo verso un autentico Stato palestinese, ma esattamente il contrario. Israele utilizzò semplicemente gli Accordi di Oslo per pacificare il popolo palestinese, utilizzando i palestinesi per reprimere altri palestinesi, mentre continuava con l’ulteriore espansione degli insediamenti illegali. È stato calcolato che circa il 40% della Cisgiordania è controllato ora dai coloni.
Il piano di colonizzazione è centrale nella strategia israeliana di occupazione della Palestina storica nella sua interezza. Ma chi sono le persone che si trasferiscono negli insediamenti. Ci sono settori differenti. Alcuni sono ebrei ultra-ortodossi che si sono trasferiti per motivi religiosi e si ritiene che compongano circa un terzo di tutti i coloni. Questi elementi sono letteralmente convinti che Israele sia la Terra Promessa che Dio gli ha dato e che dovrebbe essere restituita al popolo ebraico. Tra di essi ci sono i sionisti più fanatici, pronti a rischiare tutto per quella che pensano essere una missione sacra per restaurare l’antico stato di Israele. Sono armati e organizzano attacchi fisici contro la popolazione palestinese.
Altri sono incoraggiati dagli incentivi economici forniti dal governo. Non riuscendo a trovare abbastanza soggetti ultra-ortodossi, il governo di Israele ha da molto tempo lanciato una campagna per attrarre ebrei dagli altri paesi, sottolineando la “qualità della vita”. Questo è, nei fatti, una delle principali forze propulsive per incrementare il numero dei coloni.
Il governo di Israele investe di più, proporzionalmente, per la popolazione ebraica della Cisgiordania di quanto faccia per la popolazione che vive dentro i confini legalmente riconosciuti di Israele. Le scuole lì sono meglio finanziate. Un terzo di tutte le case sussidiate dal governo si trova negli insediamenti, sebbene meno del 10% della popolazione viva lì. C’è anche un programma di mutui agevolati per i coloni. Nel 2016, in media il governo ha speso il doppio per un singolo colono in Cisgiordania di quanto abbia speso per un israeliano medio.
Il piano è chiaramente quello di continuare a portare sempre più coloni e di cacciare via i palestinesi dalla Cisgiordania.
Il destino dei palestinesi oggi
L’estrema destra sionista non si fa problemi ad affermare apertamente che i palestinesi dovrebbero semplicemente essere espulsi. Due membri del Knesset, Danny Danon del Likud e Ram Ben Barak del partito di opposizione Yesh Atid hanno scritto recentemente un articolo per il Wall Street Journal, “L’Occidente dovrebbe accogliere i rifugiati di Gaza” (13 novembre). Il titolo dice tutto! Affermano quanto segue:
“I paesi del mondo dovrebbero offrire un rifugio agli abitanti di Gaza che cercano un ricollocamento. I paesi possono farlo creando programmi di ricollocamento ben strutturati e coordinati a livello internazionale. I membri della comunità internazionale possono collaborare per fornire pacchetti di appoggio finanziario una tantum ai gazawi interessati a trasferirsi per aiutarli con i costi di ricollocamento e per favorire l’integrazione dei rifugiati nelle loro nuove comunità”.
E aggiungono che: “Se anche i paesi prendessero soltanto 10mila persone ciascuno, questo aiuterebbe a alleviare la crisi”. E concludono che:
“La comunità internazionale ha l’imperativo morale – e un’opportunità – di dimostrare compassione, di aiutare il popolo di Gaza a andare in direzione di un futuro più prospero e lavorare insieme che raggiungere una più ampia pace e stabilità in Medio Oriente”.
Questi due individui sono importanti personaggi politici a Israele. Danny Danon è stato in servizio come ambasciatore alle Nazioni Unite dal 2015 al 2020, mentre Ram Ben Barak è stato vice-direttore del Mossad dal 2009 al 2011. Essi ovviamente riflettono le idee di un settore importante della classe dominante sionista. Camuffano le proprie affermazioni sotto parole come “imperativo morale” e “compassione”, ma quello che stanno suggerendo è la pulizia etnica di massa di Gaza, utilizzando l’attuale barbarie come una scusa per l’accoglienza dei rifugiati da parte di altri paesi.
Questi due “gentiluomini”, tuttavia, sembrano dei mansueti pacifisti se paragonati a altri come il ministro del Patrimonio Culturale Amichai Eliyahu, un membro del partito di estrema destra Otzma Yehudit, che ha affermato che un’opzione sarebbe quella di lanciare una bomba atomica sulla Striscia di Gaza. Egli sembra non preoccuparsi delle implicazioni di ciò per i suoi concittadini israeliani che vivono appena oltre il muro! (vedi “Ministro di Estrema destra: La bomba nucleare a Gaza è un’opzione, la popolazione dovrebbe andare in ‘Irlanda o nel deserto’”, Times of Israel, 5 novembre).
Tutte queste dichiarazioni mostrano che l’espulsione dei palestinesi da Gaza viene tenuta in considerazione da almeno alcuni settori della classe dominante sionista.
Come abbiamo visto molte volte nel passato, la guerra è sempre stata utilizzata da Israele come un’opportunità per espellere ulteriormente i palestinesi dalle proprie terre. Questo è stato fatto nella guerra del 1948 e ancora nel 1967. Quello che sta accadendo a Gaza oggi rientra perfettamente in questo piano più generale. Stanno sistematicamente distruggendo tutte le infrastrutture che permettono un minimo di esistenza civile.
L’intera operazione militare “per distruggere Hamas” è disegnata per ridurre Gaza in macerie: l’elettricità, le risorse idriche, le fognature, i forni del pane, le scuole, gli ospedali. Niente viene risparmiato dall’ira di Israele. Secondo l’analisi delle immagini satellitari sembra che fino a un terzo degli edifici di Gaza siano stato totalmente o parzialmente distrutti.
L’obiettivo è chiaro. Si tratta di rendere Gaza City un posto nel quale gli sfollati di Gaza non possano ritornare. Hanno anche bombardato la parte meridionale della Striscia di Gaza. La scusa per tutto questo è che sono in guerra con Hamas, ma in realtà è una guerra contro l’intero popolo palestinese. L’obiettivo può essere soltanto quello di costringerli a cercare rifugio altrove.
Tutto ciò che Israele sta facendo è pensato per rendere il ritorno degli sfollati estremamente difficile, se non impossibile. L’evacuazione interna dei palestinesi a sud della linea di Wadi Gaza sta rendendo le condizioni di vita dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza insostenibile e sta provocando una crisi umanitaria senza precedenti. Israele sta scommettendo sul fatto che l’Egitto sarà costretto a aprire il corridoio di Rafah alle masse di rifugiati gazawi in direzione del Sinai.
Nel frattempo, i coloni sionisti fanatici stanno mettendo a ferro e fuoco la Cisgiordania e Gerusalemme Est, puntando a una “Nuova Nakba”, come cantano, mentre fanno razzie nei villaggi e nei quartieri palestinesi.
Gli strateghi sionisti più seri comprendono la possibilità di un movimento insurrezionale, una nuova Intifada, che si potrebbe sviluppare in Cisgiordania, a Gerusalemme Est, estendendosi come un incendio in Giordania, Egitto e in tutti i regimi arabi reazionari che stanno assistendo al disastro incombente senza intervenire. Considerano ciò, a ragione, come una seria minaccia a Israele.
La situazione rientra perfettamente nei piani che i sionisti avevano molti decenni fa per la rimozione dell’intera popolazione palestinese e le guerre sono sempre state usate a questo scopo. Tuttavia, questi piani stanno diventando sempre più chiari man mano che il massacro a Gaza si sviluppa. Questo sta già provocando una reazione di massa.
Questo è l’incubo che sta vivendo il popolo palestinese. È un crimine di proporzioni storiche che viene perpetrato davanti agli occhi del mondo. In questo crimine, tutte le classi dominanti dei principali paesi imperialisti, i nordamericani, gli europei e gli altri, sono dalla stessa parte: quello della classe dominante sionista di Israele. Ciò sta smascherando l’ipocrisia della loro condanna dei crimini di guerra russi nella guerra in Ucraina, mentre chiudono gli occhi di fronte alle rappresaglie di massa portate avanti da Israele e all’uccisione di migliaia di donne e bambini.
La persecuzione dell’intera popolazione civile di Gaza non è chiaramente nient’altro che una punizione collettiva. L’ipocrisia rivoltante dei due pesi e due misure mantenuta dall’imperialismo americano e dai suoi alleati in Occidente sta erodendo la potente macchina di propaganda messa in moto in appoggio a Israele. I lavoratori e i giovani in Occidente stanno scendendo in piazza in numeri sempre maggiori per esprimere la propria solidarietà e il proprio appoggio ai palestinesi. Una chiara linea di divisione di classe si sta manifestando su questa questione in tutto il mondo e specialmente nelle nazioni imperialiste occidentali che hanno spalleggiato Israele in tutto e per tutto.
Le autorità o proibiscono le manifestazioni filo-palestinesi o cercano di criminalizzarle. Ma questo non sta fermando il movimento. Questo avviene perché la massa dei lavoratori in tutti i paesi comprende istintivamente da che parte debbano stare. Il diritto dei palestinesi a una patria è diventano un punto focale della lotta di classe a livello internazionale.
Per quanto ci riguarda, i comunisti lottano per la libertà e per un’esistenza degna per il popolo palestinese. Abbiamo il dovere di combattere le nostre classi dominanti imperialiste, dovunque siano, e facciamo appello al movimento operaio affinché utilizzi la sua potenza collettiva per isolare e indebolire la macchina bellica israeliana. Infine, una Palestina libera può essere garantita solo attraverso un’intifada: un’insurrezione rivoluzionaria di massa, che spazzi via non solo i regimi oppressivi in Israele-Palestina, ma in tutto il Medio Oriente, affinché tutti i popoli della regione possano vivere in pace.
Diciamo:
• Stop all’occupazione!
• Per un boicottaggio ad opera dei lavoratori della guerra di Israele!
• No all’ingerenza imperialistica!
• Per un’insurrezione rivoluzionaria in tutto il Medio Oriente!
• Per una Federazione Socialista della Palestina come parte di una Federazione Socialista del Medio Oriente!
• Intifada fino alla vittoria!