La guerra di Israele contro Gaza ha tutto il potenziale per sfociare in un conflitto molto più ampio, che aprirebbe nuovi fronti al confine con il Libano e nella West Bank e propagherebbe il caos nell’intera regione. Una simile escalation avrebbe un forte impatto non solo su tutto il Medio Oriente, ma anche sul mondo intero. L’intenso bombardamento su Gaza sta già scuotendo il mondo, a livello politico, economico e sociale.
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Tutti i piani dell’imperialismo americano nella regione sono andati in frantumi e Washington sta cercando disperatamente di mettere di nuovo assieme i pezzi. Ma non c’è modo di tornare indietro alla situazione precaria che esisteva prima degli eventi del 7 ottobre.
Il carattere senza precedenti di questa situazione si può vedere dal fatto che il Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha sentito la necessità di usare tutta l’autorevolezza della sua posizione di leader del paese imperialista più potente al mondo per cercare di recuperare una parvenza di controllo della situazione, correndo a fare visita direttamente a Netanyahu e al suo gabinetto di guerra.
Il dilemma che si pone di fronte all’imperialismo americano nella regione è: come sostenere a pieno Israele durante la sua sanguinosa strage a Gaza,e, al tempo stesso, proteggere gli interessi americani nel Medio Oriente, che sono adesso a rischio? Per comprendere tale dilemma, è necessario delineare il mutamento nei rapporti di forza tra le principali potenze a livello globale e nel Medio Oriente stesso.
Il primo fattore è il declino relativo dell’imperialismo americano – e sottolineiamo la parola “relativo”, dal momento che esso rimane di gran lunga la forza imperialista più potente sul pianeta, con l’esercito più potente che la storia abbia mai visto. Gli Stati Uniti spendono per la propria difesa più degli altri dieci paesi più potenti combinati. Così, da un punto di vista militare, nessuno può eguagliare la potenza di fuoco degli Stati Uniti. Il secondo paese a spendere di più è la Cina, ma è ben lontana dagli Stati Uniti.
Ma la potenza di fuoco da sola non è abbastanza. Bisogna anche considerare l’abilità di utilizzare questa potenza di fuoco e la capacità degli Stati Uniti di mantenere lo sforzo bellico, da un punto di vista economico, per un lungo periodo di tempo. È qui che il suo indebolimento relativo appare più evidente. Paragonata a quella degli altri paesi, la potenza economica degli Stati Uniti è diminuita notevolmente in termini relativi. C’era un epoca in cui gli Stati Uniti producevano la metà del Pil globale. Adesso sono scesi a un quarto di esso.
L’indebolimento relativo dell’imperialismo americano comporta il fatto che non è più capace di svolgere il ruolo di indiscusso poliziotto del mondo che svolgeva nel passato. La ritirata umiliante dall’Afghanistan nel 2021 – dopo venti anni di tentativi di promuovere i suoi fantocci locali nel paese – ne è stato un chiaro esempio. Il suo limitato spazio di manovra nella crisi siriana, dove la Russia ha giocato un ruolo molto più decisivo, ne è stato un altro esempio.
L’indebolimento relativo dell’imperialismo americano è stato accompagnato anche dall’aumento della forza e dell’influenza di altre potenze: prima di tutto, quella della Cina, che ha enormemente incrementato la sua spesa militare, e quella della Russia, che ha riaffermato la sua posizione in Medio Oriente, come abbiamo visto in Siria, e più recentemente in Ucraina.
In questo scenario, numerose potenze minori hanno cominciato a mostrare sempre di più i muscoli, dall’Iran alla Turchia, dall’India all’Arabia Saudita. Israele, pur rimanendo l’unico alleato affidabile degli Stati Uniti in Medio Oriente, si è smarcato anch’esso dalla morsa dell’influenza americana e sta perseguendo una sua politica indipendente.
La “normalizzazione” va in fumo
L’aspetto più importante per gli interessi americani nella regione sono state le manovre dell’Iran volte a bloccare il cosiddetto processo di “normalizzazione”, che ha visto Israele stabilire relazioni diplomatiche con numerosi paesi arabi. Israele ha stipulato da lungo tempo accordi di pace sia con l’Egitto (dal 1979) sia con la Giordania (dal 1994). E, durante la presidenza Trump, come conseguenza degli Accordi di Abramo, il Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti hanno riconosciuto Israele, seguiti a loro volta dal Sudan e dal Marocco.
L’Arabia Saudita, tuttavia, non ha mai avuto relazioni diplomatiche con Israele, ma prima degli ultimi drammatici sviluppi della situazione, si stavano svolgendo incontri ai massimi livelli, con ministri israeliani che visitavano le proprie controparti saudite. L’obiettivo era quello di aggiungere l’Arabia Saudita alla lista di paesi con “relazioni normalizzate”. L’attuale crisi ha posto fine a tutto questo.
L’amministrazione americana ha un vivo interesse nella creazione di normali relazioni tra Israele e l’Arabia Saudita, dal momento che entrambi vengono considerati, da parte degli americani, come alleati regionali. Gli Stati Uniti stanno cercando di creare relazioni tra numerosi paesi nella regione che andrebbero a vantaggio dei propri interessi, portando a un arretramento delll’influenza crescente dell’Iran e della Russia, ma anche di quella della Cina.
Tutto questo si compierebbe a spese dei palestinesi, che verrebbero praticamente cancellati dall’equazione. Mentre Netanyahu stava procedendo con i negoziati con i Sauditi, ha spiegato molto chiaramente che non sarebbe stata fatta nessuna concessione ai palestinesi.
Infatti, Netanyahu, a capo di un governo di coalizione che include fanatici di estrema destra, ha sistematicamente promosso ulteriori annessioni dei territori palestinese nella Cisgiordania. Ha promosso gli insediamenti di alcuni fra i coloni sionisti più fanatici e ultra-fondamentalisti, che sono armati e protetti dall’esercito israeliano, e che hanno sparso il terrore nelle comunità palestinesi nella Cisgiordania.
Gli esponenti sauditi – mentre si preparavano a firmare un accordo con Israele – hanno, ovviamente, continuato a sostenere a parole i diritti nazionali dei palestinesi, ma senza alzare un dito per aiutarli realmente a ottenerli. Questo ravvicinamento incombente tra Israele e l’Arabia Saudita veniva descritto come un potenziale “spostamento tettonico”, che avrebbe contribuito a far arretrare la crescente influenza dell’Iran nella regione. Il problema è che l’Iran aveva anch’esso “normalizzato” le sue relazioni con l’Arabia Saudita nel marzo di quest’anno, con un accordo mediato dalla Cina.
Qui vediamo una chiara manifestazione del mutamento degli equilibri di potere e di influenze. La Cina sta promuovendo i suoi interessi economici nella regione, nel tentativo di mantenere la stabilità nella madrepatria. La Russia ha interesse a aprire un corridoio diretto con il Golfo Persico attraverso l’Azerbaigian e l’Iran e sta facendo pressioni per un cessate il fuoco con l’obiettivo di stabilizzare la regione.
Nel tentativo di aggirare le sanzioni degli Stati Uniti (induritesi sotto Trump), l’Iran sta cercando di estendere la propria influenza nella regione. Ristabilire relazioni diplomatiche con i sauditi era parte di questo processo.
I governanti reazionari dell’Arabia saudita si stanno anch’essi indirizzando verso una posizione di maggiore indipendenza dagli Stati Uniti. Durante la Primavera Araba del 2011, l’Arabia Saudita ha assistito con orrore all’abbandono di Mubarak da parte di Washington, un loro fedele alleato per più di tre decenni. Gli Stati Uniti non avevano scelta, poiché l’alternativa sarebbe stata una rivoluzione vittoriosa in Egitto, che avrebbe spazzato via non solo l’odiato Mubarak, ma avrebbe anche minacciato il capitalismo stesso.
La cricca saudita al potere ne ha tratto una conclusione incontestabile: gli Stati Uniti non sono un alleato affidabile e non ci difenderanno fino in fondo. Essi hanno, perciò, deciso di tenersi in equilibrio tra gli Stati Uniti, la Russia e la Cina, per ritagliarsi una posizione un po’ più indipendente. Questo si è manifestato, nell’ultimo periodo, attraverso la politica saudita di tagli alla produzione di petrolio all’interno dell’Opec, così da mantenere alti i prezzi del petrolio, avvantaggiando la Russia, una politica che si è scontrata con la rabbia impotente di Washington.
È in questo contesto che dobbiamo comprendere l’alleanza dell’imperialismo americano con Israele. Quest’ultimo rimane il solo alleato stabile, l’unico sul quale possa contare quando i nodi vengono al pettine. Gli Stati Uniti hanno continuato a appoggiare Israele non solo a parole, ma anche con lo scrosciare di miliardi di dollari di aiuti militari. Quando lo ritiene necessario, come nella crisi attuale, possono innalzare enormemente il livello di questi aiuti, inviando maggiori quantità di armi.
Gli Stati Uniti hanno anche inviato due portaerei nei pressi di Israele, la USS Gerald R.Ford e la USS Dwight D. Eisenhower, assieme a altre otto navi da guerra americane, per un totale di dieci navi da guerra con circa 12mila uomini a bordo e più di 130 caccia da combattimento, in caso di necessità. Non hanno intenzione di coinvolgere personale militare americano nei combattimenti, ma stanno cercando di scoraggiare altre potenze, in particolare l’Iran, da un intervento contro Israele.
La guerra può estendersi
Quello che il governo americano teme in questo momento è che l’attuale conflitto possa estendersi al di fuori di Gaza. Ci sono già segnali in questo senso. Le forze di Hezbollah hanno lanciato missili contro Israele, colpendo avamposti dell’esercito israeliano e altri obiettivi. Israele ha risposto a sua volta facendo fuoco sul Libano.
Nell’ultima settimana, si sono verificati una serie di incidenti simili, che confermano che potrebbe avere inizio un conflitto più ampio, specialmente nel caso di un’invasione di terra a Gaza. Migliaia di persone che vivono nelle regioni di confine in Libano sono fuggite verso nord, per paura di una tale conflagrazione, mentre Israele ha cominciato a evacuare la popolazione dal confine con il Libano.
Nel 2006, 1000 libanesi vennero uccisi negli scontri tra le forze israeliane che invadevano il sud del Libano e i combattenti di Hezbollah. Da allora, Hezbollah ha notevolmente accresciuto la sua potenza di fuoco – con l’aiuto dell’Iran. Bisogna notare che nel 2006 quell’avventura si concluse con una sconfitta tattica per Israele, che si trovò costretto a ritirarsi senza aver raggiunti i propri obiettivi.
Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, dichiara di avere adesso 100mila combattenti a sua disposizione. Gli Stati Uniti stimano che ha anche immagazzinato circa 150mila missili. Il Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha risposto a una possibile minaccia di guerra da parte di Hezbollah minacciando di “riportare il Libano all’età della pietra”. Tuttavia, questo tono bellicoso non riesce a mascherare la preoccupazione di fondo riguardo al fatto che l’apertura di un secondo fronte rappresenterebbe una seria minaccia per Israele.
Secondo un articolo del New York Times del 16 ottobre: “Funzionari israeliani e americani ritengono che al momento il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, non voglia una guerra vera e propria con Israele, per paura dei danni che questa arrecherebbe al suo gruppo e al Libano”. Ma poi ha subito aggiunto: “I funzionari americani hanno detto che questa valutazione potrebbe cambiare con la raccolta di maggiori informazioni e con lo sviluppo degli eventi”.
Gli eventi, tuttavia, si stanno effettivamente sviluppando – uno tra tutti: l’invasione di terra che Israele sta preparando contro Gaza. L’uccisione di 500 civili all’interno e nei pressi dell’ospedale arabo Al-Ahli è un altro evento che ha prodotto un terremoto in tutto il Medio Oriente e oltre, e che ha colto gli americani impreparati.
I governi degli Stati Uniti e di Israele temono che il conflitto possa estendersi e, se ciò dovesse accadere, vorrebbe dire che l’esercito israeliano si troverebbe a combattere su almeno due fronti, se non di più, allo stesso tempo. E questo potrebbe portare all’intervento diretto delle forze americane, almeno in termini di attacchi aerei dalle navi da guerra che ha collocato nell’area.
I recenti scontri a fuoco tra le forze di Hezbollah e l’esercito israeliano sono stati i più intensi dal 2006 e l’evacuazione del confine settentrionale di Israele, insieme con l’invio di unità militari ausiliarie nell’area, indica che, nonostante le loro valutazione, il loro timore dell’apertura di un conflitto sul confine settentrionale di Israele è fondato. Un tale scenario costringerebbe Israele a spostare le forze di cui ha bisogno a Gaza e renderebbe sempre più difficile mantenere l’ordine nella West Bank, la cui situazione di instabilità è in costante peggioramento.
Nel frattempo, Al-Sisi, il presidente dell’Egitto, ha avvertito Israele di non deportare i palestinesi da Gaza verso la penisola del Sinai, poiché questo trasformerebbe inevitabilmente l’area in una base palestinese dalla quale colpire Israele, in maniera simile a quanto avviene nel sud del Libano. Questo aprirebbe uno scenario futuro con forze israeliane che bombardano il territorio egiziano, spingendo l’Egitto a una guerra contro Israele.
La rabbia dei popoli arabi
L’invasione israeliana di Gaza porterebbe inevitabilmente a un numero ancora maggiore di palestinesi uccisi e questo infiammerebbe enormemente l’intera regione. I popoli arabi – al contrario dei propri leader politici – provano un’empatia autentica per il calvario del popolo palestinese, che considerano composto di propri fratelli e sorelle. Se il bagno di sangue su larga scala a Gaza, ben oltre qualsiasi cosa abbiamo visto finora, continuerà a dominare gli schermi televisivi, questo inevitabilmente radicalizzerà la popolazione araba in Medio Oriente, a cominciare dai giovani.
Una grande manifestazione in solidarietà ai palestinesi ha avuto luogo a Rabat in Marocco sabato 15 ottobre. Questo è molto significativo, visto che il regime marocchino è stato uno degli ultimi a firmare un accordo di normalizzazione dei rapporti con Israele nel 2020. Le opinioni delle masse marocchine sono chiaramente molto differenti da quelle dell’élite al potere. In Giordania, abbiamo visto manifestanti marciare verso il confine con la Cisgiordania in appoggio ai palestinesi.
Proteste di massa sono scoppiate anche a Amman, la capitale della Giordania. Proteste simili sono si sono svolte in Iraq e anche in Egitto. Alcuni hanno stimato che le proteste scoppiate in Tunisia siano le più grandi dalla Primavera Araba nel 2011.
Qualsiasi governo nella regione che dia l’impressione di appoggiare in qualche modo Israele, o anche di essere vicino agli Stati Uniti, rischia di essere rovesciato dal suo stesso popolo. Questo è esattamente il motivo per cui Abbas, il presidente dell’Autorità Palestinese, il re della Giordania e il presidente egiziano sono stati costretti a cancellare il proprio incontro con Biden dopo il massacro prodotto dal bombardamento dell’ospedale di Gaza.
Instabilità economica e rivoluzione
Oltre alla rabbia di massa e alla radicalizzazione che il conflitto sta già provocando, c’è anche una paura fondata degli effetti economici di una guerra prolungata a Gaza. Il Financial Times ha pubblicato un articolo, “La guerra tra Israele e Hamas fa tremare i mercati del debito dei paesi vicini”, che spiega che gli interessi sui prestiti in Giordania e in Egitto stanno crescendo, poiché gli investitori sono sempre più cauti nel tenere i loro soldi in questi Paesi. Per non menzionare la situazione in Libano, che è andato in bancarotta appena tra anni fa.
Tutto questo avviene all’indomani della guerra in Ucraina, che ha prodotto una grave crisi alimentare, a causa dell’interruzione dei rifornimenti e dell’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli di base. Alcuni paesi mediorientali sono stati colpiti direttamente, a causa della loro elevata dipendenza dalle importazioni sia dalla Russia che dall’Ucraina. Il Libano è estremamente vulnerabile da un punto di vista economico e l’Egitto era a rischio di un fermento crescente tra le masse anche prima che scoppiasse l’attuale conflitto a Gaza. È un paese fortemente dipendente dalle importazioni alimentari, in particolare da quelle del grano.
Quello che stiamo osservando qui è il rischio concreto di una rivolta sociale e di una rivoluzione in Egitto. Hanno avuto un’anticipazione di quello di cui le masse egiziane sono capaci nel 2011 e un tale movimento è destinato a ripresentarsi se le condizioni dei lavoratori in Egitto continuano a peggiorare
Per non menzionare l’impatto sul mercato energetico, che è già stato attraversato da un’inflazione galoppante a causa della guerra in Ucraina. Il Center for Strategic and International Studies scrive:
“Gli attacchi di Hamas a Israele avranno ripercussioni sui mercati del petrolio se il conflitto si estendesse fino a includere Hezbollah o l’Iran. Ci saranno probabilmente appelli a aumentare le sanzioni sulle esportazioni petrolifere dell’Iran, che si sono già aggravate negli ultimi sei mesi. Gli incontri per la normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele potrebbero essere sospesi in un contesto di inasprimento del conflitto israelo-palestinese, con la chiusura di un importante canale di cooperazione tra Stati Uniti e Arabia Saudita”.
L’aumento del prezzo dell’energia e dei generi alimentari è stato uno dei fattori principali che hanno provocato lotte rivoluzionarie nell’ultimo periodo, particolarmente in Medio Oriente, Nord Africa e Asia.
La situazione di instabilità in Libano e in Egitto è endemica a tutta la regione. La Tunisia sta affrontando problemi simili, per non menzionare lo Yemen, che è impantanato in un disastro umanitario, o il Sudan, che è sprofondato in una guerra civile tra due fazioni della controrivoluzione militare, così come una serie di altri paesi.
La minaccia dall’Iran
Le dichiarazioni dei leader del regime iraniano non hanno aiutato a calmare i nervi degli investitori nella regione. Il Ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdollahian ha minacciato un’“estensione dei fronti bellici”, se la guerra a Gaza non si ferma. Ha aggiunto che: “l’Iran non può osservare passivamente lo sviluppo degli avvenimenti”. Il governo Iraniano ha affermato che l’invio, da parte degli americani, di due portaerei nella regione rappresenta di per sé un’escalation del conflitto, il che ovviamente è vero.
Hezbollah viene considerato un fiancheggiatore dell’Iran nella regione ed è fortemente finanziato dal regime iraniano. Questo spiega perché i leader di Hezbollah hanno minacciato di attaccare le postazioni americane in Medio Oriente se gli Stati Uniti si lasciassero coinvolgere direttamente nell’attuale conflitto. Il Times of Israel ha citato un esponente di Hezbollah che diceva: “Se gli Stati Uniti intervengono direttamente, tutte le postazioni americane nella regione diventeranno obiettivi legittimi dell’asse della resistenza e subiranno i nostri attacchi. E in quel giorno non ci porremo limiti”.
Tutto ciò spiega perché il Segretario di Stato americano, Blinken, sia stato mandato di corsa in giro per il Medio Oriente a incontrare i leader di Egitto, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi, Israele, Giordania e Arabia Saudita. L’obiettivo dichiarato di questa visita era precisamente quello di prevenire lo scoppio di una guerra più ampia nella regione. Il fatto che, immediatamente dopo la visita di Blinken, l’amministrazione americana abbia ritenuto necessario inviare Biden, per incontrarsi direttamente con Netanyahu, è un indicatore di quanto considerino grave la situazione.
Una guerra che si estendesse fino a includere il fronte settentrionale e la Cisgiordania – dove dal 7 ottobre a oggi [20 ottobre, ndt] 79 palestinesi sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane e molti altri sono stati uccisi dai coloni – avrebbe effetti profondamente destabilizzanti, non solo nella regione, ma ben aldilà della stessa. Potrebbe portare a conflitti interni, dalla Giordania al Marocco, con il rischio di rovesciamenti di regime.
Questa regione continua a essere estremamente importante per l’economia mondiale. Circa il 30% della produzione mondiale di petrolio si trova nella regione, incluso il secondo produttore mondiale, l’Arabia Saudita. Anche una grande quantità di gas viene prodotta qui. Come già detto: una guerra prolungata, specialmente se dovesse risucchiare altri paesi nel conflitto, avrebbe un impatto globale sui prezzi, soprattutto in un momento in cui i prezzi sono già in impennata dallo scoppio della guerra in Ucraina. Nell’ultimo periodo, i prezzi hanno cominciato a abbassarsi. Ma ora, l’incertezza ha fatto ritorno.
Con l’inizio dell’inverno in Europa e l’aumento della domanda di gas, potremmo assistere a ulteriori aumenti dei prezzi e la pressione esercitata su milioni di famiglie potrebbe persistere, cumulandosi al clima di rabbia che già esiste nel continente.
Gli Stati Uniti sul filo del rasoio
Le preoccupazioni dell’imperialismo americano e dei suoi alleati europei sono visibili nel linguaggio utilizzato. Inizialmente girava tutto intorno a “Israele ha il diritto alla difesa”. Questo prosegue, certamente, ma adesso sentiamo avvertimenti sulla “protezione dei civili”.
La puzza della loro spudorata ipocrisia si sente a miglia di distanza. Non sono preoccupati di proteggere i civili palestinesi. Al contrario, sono preoccupati che le scene di sangue e distruzione, che la barbarie, che le forze armate israeliane sono capaci di scatenare in presa diretta, possano destabilizzare l’intera regione e minacciare in modo catastrofico i propri interessi imperialistici nella regione e potenzialmente al di fuori di essa.
La visita di Biden in Medio Oriente non ha mai avuto lo scopo di aiutare i palestinesi. Al contrario, era rivolta prima di tutto a esprimere solidarietà a Israele, come si è visto quando ha promesso “… ulteriore assistenza militare, incluse munizioni e intercettori missilistici per rifornire il sistema Cupola di Ferro”. Nel frattempo, alle vittime del bombardamento dell’ospedale arabo Al-Ahli, Biden ha porto le proprie “condoglianze”, mentre utilizzava la propria posizione per dichiarare che Israele non era responsabile del bombardamento.
L’imperialismo americano sta camminando sul filo del rasoio e qualsiasi cosa potrebbe gettarli nell’abisso. Da un lato, sanno che i propri interessi strategici fondamentali li costringono a appoggiare Israele. Ma comprendono anche di non avere il pieno controllo sulla situazione. Qualsiasi cosa facciano, gli Stati Uniti hanno ricevuto una batosta di proporzioni storiche nella regione e questo avrà ripercussioni globali.
Questo spiega perché sia Blinken che Biden hanno cominciato a proferire parole di “preoccupazione” rispetto ai civili palestinesi e al fatto che Israele dovrebbe usufruire del suo “legittimo diritto a difendersi” in conformità alle cosiddette “leggi internazionali”. Blinken ha fatto visite diplomatiche in numerosi paesi per ottenere la collaborazione dei leader locali al fine di impedire che la guerra si allarghi, durante le quali ha discusso il peggioramento della crisi umanitaria. Ha posto la necessità di assistenza umanitaria e di un passaggio sicuro per coloro che vogliano lasciare Gaza, mentre Biden ha fatto pressioni per permettere l’ingresso di aiuti alla Striscia stessa.
Tutte queste, ovviamente, sono solo parole vuote. Stanno cavillando sul permesso all’ingresso di un numero misero di 20 camion di aiuti all’interno dell’enclave assediata, mentre promettono 10 miliardi di dollari in aiuti militari a Israele. Se fossero sinceri rispetto alla loro “assistenza umanitaria”, utilizzerebbero la propria forza e la propria influenza per fermare la guerra. Ma questa è l’ultima cosa che hanno intenzione di fare. Al contrario, gli Stati Uniti hanno appena posto il proprio veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite atta a favorire una “pausa umanitaria” del massacro di Israele e permettere l’ingresso di aiuti a Gaza (con un voto di astensione di Gran Bretagna e Russia).
La potenza imperiale più potente sul pianeta appoggia Israele nel suo massacro dei palestinesi. Ma allo stesso tempo, si preoccupano degli effetti che tutto questo produrrà. E hanno tutte le ragioni di preoccuparsi, perché il mondo è gravido di rivoluzioni, anche in patria, dove milioni di giovani sono disgustati dalla politica imperialista americana e simpatizzano con i palestinesi in modo istintivo. La vita è diventata insopportabile per milioni di persone.
La guerra: una continuazione della politica con altri mezzi
Le stesse tensioni che preparano la guerra tra le nazioni, producono la guerra tra le classi. È l’impasse del capitalismo a livello globale che ha preparato l’attuale barbarie che ci troviamo di fronte. È la classe capitalista che ha interesse nelle guerre di conquista. In questo caso, abbiamo la classe capitalista di Israele, sostenuta dalle classi capitaliste degli Stati Uniti e dell’Europa, che promuove i propri interessi per mezzo della guerra.
Nel 1917, in riferimento alla Prima Guerra Mondiale, Lenin pose la questione di “le ragioni per cui essa è scoppiata, le classi che la conducono, le condizioni storiche e storiche-economiche che l’hanno provocata”.
E spiegò che: “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Ogni guerra è indissolubilmente connessa con il regime politico da cui deriva. È la stessa politica che una data potenza e una data classe in questa potenza ha condotto assai prima della guerra, è la stessa politica che questa classe prosegue durante la guerra, cambiando soltanto la forma della propria azione. ”.
Per decenni, fin dalla creazione di Israele, la classe dominante sionista si è impadronita di porzioni sempre maggiori di territorio palestinese. Questo è evidente a chiunque dedichi un po’ di tempo a studiare la mappa della Cisgiordania. È chiaro che la politica del governo israeliano in “tempi di pace” sia stata quella di espellere sistematicamente i palestinesi. La sua politica in tempi di guerra è la stessa.
Non esiste più un’unica Palestina dotata di continuità territoriale di cui parlare. La Cisgiordania è stata fatta a pezzi da un numero crescente di colonie ebraiche. Nel 1972, c’erano poco più di 10mila coloni sparsi nel territorio palestinese. Da allora, questa cifra è schizzata a circa 750mila.
Per tornare alle parole di Lenin: “Vengo adesso all’ultima questione, al modo come mettere fine alla guerra”. E a ciò rispose molto chiaramente: “Nessuno, tranne la rivoluzione operaia in alcuni paesi, uscirà vincitore da questa guerra [la Prima guerra mondiale, ndt]. La guerra non è un giuoco, la guerra è una cosa mostruosa, che costa milioni di vite umane e a cui non è facile mettere fine”.
Oggi, si applica lo stesso principio. Finché la classe capitalista sionista rimarrà al suo posto in Israele, e finché il potere nei paesi circostanti rimarrà nelle mani delle élite borghesi, la guerra attuale non sarà l’ultima. Finché i palestinesi rimarranno senza una patria, non ci sarà una pace durevole. Anche se Netanyhau, attraverso una brutale campagna militare con pesanti perdite umane, riducesse temporaneamente la capacità di Hamas di attaccare Israele, la barbarie odierna sta facendo sedimentare un profondo rancore tra i palestinesi, in particolare i giovani, che troveranno il modo di contrattaccare, e il conflitto continuerà.
L’unica forza che può aiutare i palestinesi a raggiungere il proprio obiettivo storico di avere una nazione che possano chiamare propria sono la classe operaia e le masse povere dei paesi del Medio Oriente. Questo implica una lotta rivoluzionaria internazionale per rovesciare tutti i regimi capitalisti nella regione, insieme con le potenze imperialistiche che li appoggiano. Così, se vogliamo fermare la guerra, dobbiamo spazzare via dal potere la classe che trae profitto dalla guerra: quella dei capitalisti di tutte le nazioni.